Gli Stati Uniti hanno creduto di poter tenere sotto controllo lo Stato ebraico. Non ci sono riusciti, e ora Joe Biden ne paga le conseguenze.
Gli osservatori più critici nei confronti della politica estera degli Stati Uniti hanno ritenuto la Casa Bianca responsabile di aver collaborato attivamente al massacro dei palestinesi. Il calcolo delle vittime è vicino a un totale di 24mila, mentre gli attacchi militari di Israele contro Hamas continuano ad alta intensità, senza alcun rallentamento. L’opinione pubblica mondiale, se per tale si considerano le manifestazioni di piazza in tutto il mondo, sta biasimando con la massima indignazione la prova di forza sproporzionata che ha dato il governo Netanyahu, convinto di dover ripristinare la deterrenza.
Israele si sta difendendo dall’accusa di genocidio, mossa dal Sudafrica, alla Corte internazionale dell’Aja. Tel Aviv cerca di ribaltare la contestazione, indicando Hamas come responsabile di intenzioni genocidarie. La sconfitta politica, oltre che di Netanyahu, la cui riforma della giustizia peraltro è stata bocciata dalla Corte suprema israeliana, è ricaduta sinora soprattutto sul presidente americano Joe Biden. Il premier israeliano è in minoranza nei sondaggi ormai da mesi, e da molti ritenuto colpevole di non aver saputo organizzare l’esercito, di fronte all’attacco del 7 ottobre.
Quando l’alleato principale è accusato di genocidio
Netanyahu ha comunque ottenuto un obiettivo, ammesso che l’abbia avuto e che tuttora lo persegua: demolire la credibilità di Joe Biden, d’altro canto in crisi a causa dello stato di salute, delle gaffe e dell’andamento delle due guerre principali. Se poi Israele subirà delle misure cautelari immediate da parte della Corte dell’Aja, per Washington sarà ancora peggio, oltretutto ora che la lunga corsa verso le presidenziali di novembre è iniziata con l’avvio delle primarie.
La spregiudicatezza dimostrata da Joe Biden nella guerra d’Ucraina è stata tale, durante il suo mandato e anche prima, che non deve stupire il suo tentativo di placare la vendetta di Tel Aviv poco prima delle elezioni presidenziali. L’ultimo colloquio tra il premier israeliano il presidente americano risale infatti al 23 dicembre. E’ stato Biden a interrompere la telefonata, dopo i continui dinieghi di Benjamin Netanyahu. L’irritazione della Casa Bianca è stata lasciata trapelare ed è stata confermata da diverse indiscrezioni e dichiarazioni di membri del partito democratico.
Da Natale la Casa Bianca non parla più con Bibi
Gli Stati Uniti si aspettavano, già a fine dicembre, che l’azione militare abbandonasse la modalità “ad alta intensità” per passare ad “azioni mirate”. Invece nulla è cambiato. A questo punto il sostegno incondizionato di Washington all’alleato di ferro può essere messo in discussione. Ciò che Bibi Netanyahu respinge, pressato dai suoi ministri più sbilanciati a destra, è l’incarico all’Anp, tuttora guidata da Mahmud Abbas, di ricostruire Gaza con un autogoverno palestinese.
Gli estremisti israeliani vogliono ridurre la presenza palestinese nella Striscia di Gaza a non oltre 200mila persone, ovvero il 10% della popolazione superstite attuale. La loro speranza è indurre la gran parte degli abitanti all’emigrazione in altri Paesi africani. Gli Stati Uniti cercano di costringere Israele a occuparsi della ricostruzione di Gaza, un argomento ascoltato con la massima freddezza dal premier di Tel Aviv.
Il rischio di essere condannati da tutti gli altri Stati
E non finisce qui. Se Israele non accetta la soluzione dei due Stati, l’unica proposta dall’Onu sin dal ’48, ma considerata come unica possibile anche durante il dibattito precedente la Shoah, l’Arabia Saudita se ne guarderà dal firmare il trattato sulla normalizzazione delle relazioni. Benjamin Netanyahu dovrà cedere, secondo la volontà di Joe Biden. Ne va del suo stesso mandato, che sembra appeso a un filo.
Infatti il segretario di Stato americano Anthony Blinken, durante l’ultimo viaggio a Tel Aviv, ha intrattenuto colloqui separati, oltre che con Netanyahu, con i leader del governo futuro, che a Netanyahu succederà. Ha parlato con Benny Gantz, capo del Partito di unità nazionale e probabile prossimo premier, oltre che con il leader dell’opposiziione Yair Lapid e con il ministro della Difesa Yoav Gallant, che del premier attuale è l’avversario all’interno del partito Likud. Israele rischia l’isolamento in un contesto in cui gli Stati, se vincerà Donald Trump, saranno meno presenti sulla scena mediorientale.