Non è la razionalità il contrassegno distintivo del bene. Anche il male può essere praticato con logica implacabile. Israele lo ha dimostrato.
E’ diventato impossibile abitare nella Striscia di Gaza. Il coordinatore per gli Affari umanitari dell’Onu Martin Griffiths ne ha preso atto. Dopo 92 giorni dall’inizio della guerra tra Hamas e Israele, mancano le condizioni igieniche minime per la sopravvivenza umana. Nello stesso tempo, dall’enclave in cui i palestinesi sono stati costretti a insediarsi, è impossibile fuggire. Un esodo di enormi proporzioni ha spostato gran parte della popolazione verso sud. Nessuno Stato sinora ha voluto ospitare i futuri profughi palestinesi, circa due milioni e 200mila persone.
Infatti Israele già progetta accordi con altri Paesi africani, come il Congo, per spostare la popolazione con la quale cioè non sarebbe possibile una convivenza accettabile fra confinanti. Tel Aviv interpreta come nemici futuri anche i bambini, ai quali viene insegnato a scuola che lo Stato ebraico va distrutto. Così si afferma nei post Instagram dell’esercito israeliano. E l’attività bellica procede, fredda, metodica, ma efficace solo in parte. Molti ostaggi infatti non sono ancora stati liberati, malgrado più di 22mila morti.
Un territorio inabitabile per un popolo che nessuno vuole
Alcuni prigionieri di Hamas, paradossalmente, sono morti sotto i colpi di chi li avrebbe dovuti liberare. Martin Griffith ha dichiarato quanto tutti, dalle testimonianze, hanno potuto constatare: gli abitanti della Striscia affrontano minacce quotidiane sotto gli occhi del mondo. Tuttavia, nessuno interviene. E dire che l’inabitabilità della Striscia non è una metafora: il significato è tecnico. Non ci sono servizi igienici, non c’è cibo sufficiente per nutrirsi senza ammalarsi.
Francia e Giordania hanno inviato ciascuna un proprio aereo, dunque due C-130, in un’operazione congiunta. Hanno potuto così lanciare 7,7 tonnellate di aiuti umanitari sull’ospedale da campo di Khan Yunis, realizzato dalla Giordania. Gli stessi soccorritori hanno bisogno di aiuto e sostegno, per poter curare i feriti e i malati e quindi scongiurare il rischio di un’epidemia.
Negata ai superstiti la possibilità di restare in salute
Dopo 92 giorni di guerra combattuta in quelle condizioni, i civili sopravvissuti ai bombardamenti rischiano di morire di malnutrizione e di malattie prevenibili. La direttrice generale dell’Unicef Catherin Russell ha presentato statistiche degne di un incubo. I casi di diarrea nei bambini sotto i cinque anni sono aumentati del 2000%. In una sola settimana, dal 17 dicembre, i casi sono cresciuti da 48mila a 71mila in una settimana. Non ci si può lavare, a causa della mancanza di acqua. Continuare ad abitare nella Striscia restando in salute è praticamente impossibile.
L’Unicef, che sta osservando il rapido cambiamento delle condizioni di vita, nel monitoraggio del 26 dicembre ha rilevato che la maggior parte delle famiglie dichiara che i propri figli si sono alimentati solo di cereali, pane compreso, o latte. E’ quel che si definisce grave povertà alimentare. Una nutrizione corretta, cioè diversificata e sufficiente, è impossibile per le stesse donne in gravidanza e le madri che allattano i figli. E’ una situazione in cui si trovano più di 150mila donne, oltre 135mila bambini sotto i due anni. Sui più piccoli grava la minaccia della diarrea acuta e prolungata, che li espone a malattie e morte.
Né acqua né cibo: abbondano solo le bombe
Tutto questo comporta una catastrofe umanitaria, anche perché i servizi igienici non ci sono e manca l’acqua pulita e corrente. Le fogne sono inutilizzabili o non ci sono nemmeno, per gli sfollati, costretti a scaricarsi a cielo aperto. Negli ospedali le risorse bastano solo a curare i feriti più gravi, dato che i bombardamenti continuano. Di conseguenza, Israele progetta la propria soluzione: spostare altrove i palestinesi.
Da quel che se ne sa, lo Stato ebraico sta chiedendo a diversi Stati africani, fra cui il Congo, la disponibilità a ricevere in campi profughi migliaia di persone in arrivo dalla Striscia di Gaza. Si profila quindi una diaspora dei gazawi, che in massa, tutti quanti, non possono oggi essere ricollocati. Spaventa questo modo di trattare una popolazione come un agglomerato umano che occupa quel che un tempo veniva definito spazio vitale.
Un modo di fare che tutto sommato non sorprende
Eppure anche nell’Unione europea, che pure si atteggia a patria del diritto, della civiltà e della cultura, si è soliti per legge inserire il personale impiegato in un’azienda nel capitolo di bilancio “beni e servizi”, se si tratta dei lavoratori di una cooperativa appaltista di una fornitura di risorse umane. Dunque deportare oggi si può, alla luce nuove di nuove, razionali e pragmatiche normative? E’ questa l’evoluzione contemporanea dell’imperativo categorico? Cambiare i termini del vecchio darwinismo sociale per risolvere i problemi in modo molto meno cruento? E’ accettabile tutto questo? Il Regno Unito vuole ricollocare i migranti respinti, e pure l’Italia.
Per l’Onu no, non è affatto ammissibile, dopo 70 anni di pronunciamenti per la soluzione dei due Stati. Ma l’alternativa alla diaspora qual è? Il ministro delle finanze di Israele Bezalel Yoel Smotrich, deputato della Knesset e leader del partito sionista religioso, di estrema destra, sostiene che almeno il 90% dei residenti di Gaza se ne dovrebbe andare. Se resteranno solo 100 o 200mila persone, si potrà ragionare di una praticabile amministrazione autonoma; con questo numero di abitanti, invece no.
Smotrich tratteggia la Striscia di Gaza a tinte forti, come un focolaio di due milioni di persone che crescono nell’odio, con lo scopo di distruggere Israele. Bisogna allora incoraggiare l’emigrazione. Oltre un certo numero, non possono essere. La Striscia è insomma misurata come una quantità, un corpo sociale che rappresenta fisicamente un pericolo, una volontà politica intollerabile. Dopo la guerra del 1947-49, i palestinesi furono costretti a rifugiarsi nella Striscia in quella che hanno chiamato nakba, catastrofe. E ora si profila una seconda nakba. Che l’Occidente senz’altro saprà trasformare in una narrazione sostenibile.