Hamas è riuscita a intrappolare Israele in un tragico paradosso, perché Tel Aviv non può che attaccare con ferocia aumentando i propri nemici
Pur avendo proclamato ogni giorno che l’obiettivo è liberare gli ostaggi, Israele non fa altro che procedere metodicamente e sistematicamente nella propria opera di sterminio della popolazione civile della Striscia di Gaza. Hamas sembra aver previsto la reazione dello Stato ebraico, dopo il pogrom del 7 ottobre, come accettando un immane bagno di sangue. Scelta spaventosa, che pure è stata rivendicata da Hamas nei primi giorni di bombardamento.
Il partito che guida dal 2006 i palestinesi ha ottenuto, pur avendo compiuto una strage di mostruosa violenza, un incremento di popolarità all’estero. Si parla addirittura della possibilità, per quanto remota, di unire il mondo islamico. Contemporaneamente il premier Benjamin Netanyahu, contestato in patria e all’estero, cerca di recuperare consensi scrivendo un editoriale sul Wall Street Journal. Il leader ebraico conferma la propria linea, che tende a eliminare Hamas dalla Striscia, smilitarizzare e deradicalizzare la popolazione palestinese. Come? Con le bombe.
Una politica che si trasforma in una macchina di morte
Sembra che l’era del Terrore, che insanguinò la Rivoluzione Francese, sia tornata. La strage avviene sempre alla luce del sole, pianificata e attuata, a quanto si vede, senza rimorsi e senza scrupoli. Un massacro di massa, nel quale si perde facilmente la vita in modo anonimo, solo perché si abitanti di Gaza. L’Occidente, questa volta, dichiara di riconoscersi nella democrazia e nella civiltà dello Stato che bombarda da quasi tre mesi una popolazione inerme.
Israele, così facendo, demolisce la propria immagine di unico Paese democratico della regione. Anni fa, la folle distorsione del Corano praticata dall’Isis terrorizzava l’opinione pubblica occidentale. Lo sterminio di quasi 21mila persone nella Striscia invece procura nemici e le contestazioni delle piazze di tutto il mondo, mentre il sostegno delle cancellerie europee e americane persiste incrollabile, in nome di una civiltà incomprensibile.
Medio Oriente mai così unito nell’ostilità ad Israele
Il ministro della Difesa Yoav Gallant, durante una riunione della commissione parlamentare per la sicurezza e la difesa, ha affermato che lo Stato ebraico è impegnato su ben sette fronti. Hezbollah attacca da nord, al confine con il Libano, poi ci sono gli scontri episodici a est verso la Siria e l’Iraq, oltre alla Cisgiordania e a Gaza. Il pericolo è arrivato poi dallo Yemen, dove i ribelli Houthi hanno bloccato alcune navi commerciali di Paesi alleati con Israele, che dal canale di Suez transitavano nel Mar Rosso.
In tutto i fronti sono sei. Ne manca uno, mai nominato da Gallant. Il quale ha precisato che in ogni occasione Israele ha reagito energicamente. E’ questa la strategia, già decisa, approvata dal governo, del tutto priva di casualità. Per giunta, il ministro ha dichiarato chiaramente che non c’è immunità per nessuno. Chiunque agisca contro lo Stato ebraico, diventa un obiettivo. Nel discorso di Gallant trovano posto la determinazione nazionale, la coesione, i valori di Israele. Una battaglia aperta per la civiltà contro la barbarie. Argomentazione non nuova, certo temibile. Sì, ma gli ostaggi? Come verrebbero liberati lanciando missili e bombe, resta un enigma.
Gli Stati Uniti a loro volta colpiscono. Lo hanno fatto in Iraq, su tre strutture usate da Hezbollah e altri gruppi affiliati. Il segretario americano Lloyd Austin ha avuto cura di utilizzare un aggettivo importante: gli attacchi americani sono proporzionati, oltre che necessari, mentre da molti anni Israele segue la dottrina della forza sproporzionata. Dunque anche contro i civili. Mai è stato pronunciato da Gallant il temuto nome dell’Iran, il nemico più potente e pericoloso, che resta tanto implicito e nascosto fra le pieghe del discorso, quanto attivo e minaccioso.