Oltre quattrocento famiglie hanno perso da uno a cinque familiari, nel frattempo i bambini si tatuano un ricordo sulla pelle.
E’ una tranquilla mattinata autunnale, i leader politici si stiracchiano sotto le coperte e si alzano finalmente dal letto. Un po’ assonnati, un po’ annoiati. Prendono il caffè, imbellettati e sorridenti. Dopodiché raggiungono i consiglieri per impegnarsi nella loro tradizionale partita a Risiko. E mentre i diplomatici trovano diletto nelle lotte di supremazia e nel veder allargato il proprio confine, in quello stesso territorio segnato sulla mappa oltre 11mila vite cessano di esistere. La vendetta, l’ideologia e il principio – che fungono da fondamento per le stragi – appaiono sempre privi di senso a posteriori. Ed è facile al termine di un conflitto piangere sul latte versato, sviluppando in poco tempo una forma di rammarico mista ad indifferenza.
Per i leader politici le vittime delle guerre rappresentano un numero. I civili muoiono in guerra, si giustificano. Un’argomentazione che poteva sussistere ai tempi delle Crociate e dell’Antica Roma, quando l’uomo non aveva ancora sviluppato un concetto più ampio di pace, benessere e serenità. Tuttavia, nel XXI secolo – l’era della tecnologia, dell’innovazione medica e sanitaria, dello sviluppo intellettuale e sociale – tale giustificazione perde di senso e si trasforma in una scusa infantile e retrograda. La storia, vera maestra di vita, dovrebbe insegnare a non commettere nuovamente gli stessi errori del passato. Se solo qualcuno la ascoltasse.
Tatuati nel cuore e sulla pelle
I bambini vagano per le strade diroccate della città di Gaza, cercano e chiamano la Mamma, senza ottenere risposta. Si affidano così alle cure di sconosciuti e chiedono loro che gli venga tatuato sull’avambraccio il nome del parente che hanno perduto. Sperano in un’anima buona che riconosca uno spiraglio di familiarità e che riesca così a condurli nuovamente tra le braccia dei cari di cui hanno perso le tracce. Un marchio, questo, che rimanda ad uno dei periodi più bui vissuti dalla popolazione europea ed occidentale.
Un senso di appartenenza che si trasforma in un bisogno intrinseco nella loro essenza. Piccoli uomini e donne che hanno perso tutto, tranne la memoria. Il ricordo dei pranzi di famiglia, dei sorrisi delle proprie sorelle e fratelli. Persino i rimproveri dei genitori assumono un sapore più dolce. Niente in confronto alle urla strazianti di un’intera civiltà che muore. I bambini di Gaza, oltre a vedere tatuate sulla propria pelle le ferite di guerra, sono marchiati con un nome. Il tentativo, questo, di proteggere – almeno in parte – le loro radici, le stesse che ora sopravvivono senza un campo fertile a cui aggrapparsi.