Secondo uno studio, la diffusione di particolari falene bianche in Nepal sarebbe correlata all’insorgere di una grave epidemia che provoca cecità: i dettagli
Un gruppo di ricercatori nepalesi è da diversi anni all’attivo per cercare di stabilire se esista davvero una correlazione tra alcune falene bianche e una rara malattia oculare, nota come panuveite iperacuta stagionale, abbreviata in SHAPU, che da alcuni anni affligge il Paese. Purtroppo, questo grave – quanto sconosciuto – morbo, che si manifesta con arrossamento oculare indolore e una progressiva diminuzione della pressione nell’occhio, può portare alla perdita della vista. In particolare, le stime hanno valutato che i bambini sembrano essere i più esposti al rischio cecità se non ricevono un intervento medico entro 24-48 ore.
Fino al 2021, la SHAPU non era molto conosciuta, dal momento che erano stati registrati pochi casi accertati, documentati nelle cartelle cliniche degli ospedali locali e nelle riviste scientifiche. Tuttavia, ora che i casi stanno progressivamente aumentando in tutto il Nepal, un team di ricercatori dell’università di Kathmandu sta indagando per scoprire se le falene bianche possano essere in qualeche modo coinvolte nella diffusione di questa malattia oculare.
In sostanza, la ricerca mira a stabilire se ci sia una correlazione tra la presenza di queste falene bianche e l’insorgenza della malattia in Nepal. Si tratta di studio di fondamentale importanza, dal momento che potrebbe aiutare a identificare le cause latenti della panuveite iperacuta stagionale e portare allo sviluppo di strategie di prevenzione e trattamento più efficaci per proteggere la vista delle persone a rischio, in primis quella dei bambini.
La scoperta della SHAPU risale al 1979, quando l’oftalmologo Madan P. Upadhyay, attualmente presidente emerito presso la BP Eye Foundation di Kathmandu, la diagnosticò a una bambina di tre anni, che si presentò da lui con l’occhio destro gravemente infiammato. Si trattava di un sintomo che l’oftalmologo aveva già avuto modo di trattare alcuni anni prima, per poi giungere a una vera e propria diagnosi della malattia, i cui casi riscontrati andavano misteriosamente aumentando ogni anno.
Inizialmente, gli esperti, tra cui Anu Manandhar, specialista di uveite presso l’Istituto di oftalmologia Tilganga di Kathmandu, avevano considerato la malattia come una semplice infiammazione, sebbene avessero subito compreso il rischio di compromettere l’intero bulbo oculare, valutando che le metodologie di trattamento disponibili non garantivano la conservazione della vista nei bambini. La causa scatenante della SHAPU rimaneva un mistero, al punto che i medici furono costrertti a sperimentare diverse opzioni terapeutiche, tra cui antibiotici, steroidi e altri farmaci per gli occhi, senza alcuna garanzia di successo. In alcuni casi, i farmaci producevano risultati positivi, mentre in altri casi gli stessi trattamenti avevano un effetto limitato.
Nel 2021, il Nepal ha affrontato una nuova e diffusa epidemia di SHAPU, con oltre 150 casi registrati, tanto da sollevare l’attenzione dei media locali. Gli scienziati speravano che una semplice coltura di laboratorio dell’occhio infetto avrebbe rivelato la causa dell’infezione, ma i risultati non erano ancora chiari. I test sui pazienti colpiti hanno identificato la presenza di diversi microrganismi, tra cui i batteri Staphylococcus e Streptococcus, e virus come gli anelloviridae umani e il virus varicella-zoster, e persino alcuni funghi.
Portando avanti la ricerca sulla SHAPU e sulle possibili correlazioni esterne alla sua diffusione, i ricercatori nepalesi hanno notato che molte persone avevano avuto contatti diretti o indiretti con una falena bianca prima della comparsa dei sintomi. In particolare, uno studio condotto nel 2020 da Ranju Kharel (Sitaula), un oftalmologo dell’Istituto di medicina dell’Università Tribhuvan di Kathmandu, e il suo team ha rilevato una differenza statisticamente significativa tra le persone affette da SHAPU e un gruppo di controllo. Infatti, i pazienti malati avevano quasi sette volte più probabilità di riferire contatti con farfalle o falene bianche, del genere Gazalina, note per attraversare il Nepal in sciame alla fine della stagione dei monsoni.
A tal proposito, i risultati dello studio di Kharel suggeriscono un forte legame tra la falena Gazalina e il diffondersi della malattia, come documentato anche da Daya Ram Bhusal, un entomologo dell’Università di Tribhuvan, il quale ha esaminato i principali distretti del Nepal occidentale che in passato sono stati focolai di SHAPU. Gli studiosi stanno raccogliendo dati sulle località in cui sono state avvistate le falene e stanno esaminando vari fattori ecologici, tra cui temperatura, umidità, tipo di vegetazione e altitudine. Infatti, il loro obiettivo è quello di elaborare una precisa classificazione tassonomica delle falene bianche, dal momento che in Nepal sono state documentate tre specie di falene del genere Gazalina, per arrivare a capire quale di esse sia effettivamente associata alla SHAPU.
Purtroppo, i ricercatori impegnati nello studio della SHAPU sono ostacolati dalla mancanza di fondi, che limita la loro possibilità di condurre ricerche approfondite. Infatti, il Nepal non dispone di un laboratorio di sequenziamento metagenomico, che consente di esaminare il materiale genetico in un campione per individuare i tipi di microrganismi presenti, il che significa che le analisi devono essere spesso condotte negli Stati Uniti e in altri Paesi esteri.
Negli ultimi anni, il governo nepalese ha incrementato il suo supporto alla ricerca, ma il progetto rimane ancora limitato dalla mancanza di finanziamenti. Dal canto suo, Kharel fa notare che, nonostante gli sforzi scientifici stia conducendo nella giusta direzione, la SHAPU rimane un enigma in quanto la sua distribuzione geografica e la diversità dei sintomi segnalati continuano a renderla un mistero, così come la sua eventuale correlazione alla falena bianca.
Non solo Nepal, non solo falene bianche. Infatti, anche in Italia negli ultimi mesi i cittadini sono stati allarmati in merito alla massiccia diffusione della cosiddetta vespa velutina. Non a caso, Fedagripesca Toscana ha messo in guardia dai rischi legati alla diffusione dei questo insetto “killer” originario dell’Asia, incoraggiando le segnalazioni per aiutare a mapparne la presenza. In particolare, Stefano Gori, portavoce di Fedagripesca Toscana – Confcooperative, ha lanciato un accorato allarme alla popolazione e alle istituzioni, sottolineando che la salute delle Apis mellifera, le api comuni in Italia, è a rischio a causa della diffusione della vespa velutina, che metterebbe in difficoltà il settore agricolo provocando una drastica diminuzione nella produzione di miele. Inoltre, le associazioni di categorie ribadiscono che la minaccia della vespa velutina si ripercuote su tutto il comparto apistico, soprattutto a livello economico.
Ma la vespa velutina non è nuova a questo tipo di allarmi, dal momento che se ne registrano avvistamenti dal 2020, sia negli Stati Uniti sia in Italia, tra la riviera ligure di ponente e la Toscana. Di recente, le segnalazioni si concentrano soprattutto nella zona di Genova e in Toscana. Va notato che, nelle città, le api costituiscono una parte significativa della dieta proteica delle larve di vespe velutina, mentre in ambiente rurale l’insetto asiatico si nutre anche di altri impollinatori, come bombi, megachilidi e farfalle.
Altro aspetto fondamentale: le punture di vespa velutina possono essere pericolose per gli esseri umani. Il veleno iniettato dall’insetto può causare sintomi che vanno dall’arrossamento, al gonfiore, al bruciore e al prurito. Nei soggetti allergici, il contatto con questa vespa può scatenare uno shock anafilattico, che, se non trattato tempestivamente, può portare a problemi respiratori gravi e persino al decesso.
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